La nostra classe dirigente è una
sprovveduta Teti, che nell’immergere l’Italia nello Stige del progresso, ha
trascurato più di un particolare. Ma se Achille doveva badare al suo solo
tallone qui mala tempora currunt per uno stivale intero. Come da storica
memoria è facile ricordare che nei momenti di crisi prostrante il popolo
risponde con vivacità e ardimento intellettuale, così come avvenne durante il
“Fausto cinquantennio” dell’Ottocento sardo. Così la penna onniveggente del celebre storico Raimondo Bonu denominò quel periodo intercorso tra gli
anni Venti e Settanta del XIX secolo, in onore della migliore gioventù sarda che
nell’ appassionata palestra della stampa dava voce e spazio all’ indimenticabile
epopea del Risorgimento sardo. Il giornalismo e l’attività letteraria
dell’Ottocento sardo lasciano progressivamente spazio ad una certa soporosa
letargia culturale che dopo i rigori del regime fascista si avvia ad
accomodarsi, eccetto validi esempi, sugli allori del benessere economico appena
conquistato. Tuttavia, per quei pochi ma validi esempi di cui si diceva, vale
ancora la pena acquistare libri e quotidiani in Sardegna. Con stile garbato, ma
non ossequiente, Anthony Muroni, Direttore de “L’Unione Sarda”, libero d’animo
e di penna, fa venire in mente i tempi d’oro del
giornalismo sardo, quello del quotidiano da battaglia politica, quello, per
intendersi, che al giornalista pretendeva non solo di vergare con eleganza ma
di spostare l’opinione pubblica con l’autorevolezza dell’umanista policulturale.
Competenza tecnica, profondità critica, chiarezza e linearità espositiva si
riflettono sullo scritto e sulla conduzione, contribuendo a definire
l’inconfondibile stile “muroniano” che non manca di intarsiare la cronaca con
soventi richiami alla storia patria, pronto ad un tempo a dare spazio alla
narrazione delle tendenze della società e della cultura mondana. Reduce dal
successo televisivo di “Dentro la notizia”, col suo caratteristico melting
pot politico e culturale, sentiamo l’infaticabile intellettuale per parlare con lui de “Il sangue della festa” (Ethos Edizioni, 150 pagine, ultima fatica letteraria, antecedente alle tre opere biografiche uscite in rapida successione in questi mesi) un suggestivo noir che si rinnova
di continuo anche per la destrezza con cui l’autore ha saputo intrecciare i
fili con varietà di toni espressi dal
piglio risoluto di una prosa sobria e succosa che non è forzata contemplazione
lirica della Sardegna.
Il suo libro ha due anime, due
caratteri autonomi che si evincono già
da un titolo in lingua italiana e sottotitolo in lingua sarda (Mortu in die
nodida). La Sardegna di Giaime, trasferitosi per lavoro a Cividale, non è
la Sardegna ammirata dal turista ma neanche la Sardegna delle fiaschette ad
armacollo, delle cassa panche e dell’astore padrone della bonaccia e della
tempesta. Qual è dunque la Sardegna di Giaime? E’ quella della mia prima
giovinezza, trascorsa in Planaria. Quella della saggezza popolare, del paese
che si fa famiglia allargata. Ma anche la Sardegna di oggi, con le sue
difficoltà e le sue contraddizioni. La responsabilità del suo ruolo
all’interno del quotidiano limita in qualche modo i suoi margini di manovra
narrativa? Le due attività sono assolutamente scisse. Io mi sento libero
quando faccio il giornalista e ancora di più quando mi diverto a scrivere. Il
vantaggio è proprio quello di non essere un vero scrittore. Mi posso avvicinare
al libro con la leggerezza dell’ hobbysta che cerca un po’ di evasione al suo
quotidiano. La copertina del suo libro nasce da un simpatico concorso su
Face Book. Che opinione ha dei social network da un punto di vista informativo?
La mia presenza sul social network è caratterizzata proprio da un continuo
scambio con i miei contatti. Mi confronto con loro non solo sulle questioni
letterarie, che sono appunto un hobby, ma anche sul mio lavoro nel quotidiano
più diffuso nell’Isola e nella televisione che ogni giorno tiene compagnia a
quasi la metà dei sardi. Lei è molto giovane ma ha alle spalle diversi premi
letterari tra cui la menzione speciale al prestigioso Premio Alziator. Se l’oro
sale e scende come la fama degli uomini ai giornalisti di razza spetta una
medaglia che non sia di metallo, che riconoscimenti merita oggi una pagina di
valore? Non sono uno che bada a queste cose e non lo dico per falsa
modestia. L’essere eccessivamente modesti non è infatti una virtù. Ma credo che
i premi lascino il tempo che trovano. Il premio più bello, mi creda, è quello
del confronto con i lettori: un complimento, così come una critica costruttiva,
sono il più bel regalo per un giornalista professionista e uno scrittore
dilettante, quale io sono. Ilaria Muggianu Scano
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