giovedì 10 ottobre 2013

Montecitorio. MAURO PILI CONTRO I POTERI FORTI: Il coraggio e la coerenza della Politica Nuova di Unidos.

MAURO PILI. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, avrò modo, intervenendo su questo provvedimento, di spiegare le ragioni per le quali ho deciso, nei giorni scorsi, di votare contro la fiducia a questo Governo. È evidente che ci sono elementi in questo provvedimento, in questo decreto, che non solo confermano le ragioni di fondo, ma anche una scelta, politica, di non condividere le strategie economiche, le azioni, strabiche, di questo Governo verso alcune parti importanti del nostro Paese, che eludono questioni fondamentali, come quella della coesione, del riequilibrio e, mi consenta, signor rappresentante del Governo, delle intromissioni dei poteri forti, che condizionano radicalmente l'azione anche di questo Governo. 
Credo che sia necessario per esaminare questo provvedimento guardare la prima parola che voi riproducete nel titolo del decreto, ovvero l'urgenza, cioè ponete alla base di questo provvedimento il tema dell'urgenza. Insieme a questa, però, emerge la precarietà e la totale inconsistenza, strategica ed economica, di questo provvedimento. Quando parlate di urgenza, rappresentate nel modo più plastico, più evidente, la totale assenza di una strategia politica, che emerge in tutto il provvedimento; un rincorrersi di provvedimenti, oggi sospesi, domani annunciati, che fanno di questo Governo un Governo dei rinvii, incapace di affrontare, così come avrebbe dovuto – un Governo di larghe intese, di grande disponibilità politica del Parlamento – sostenere scelte radicali per il nostro Paese.
Da anni, e questi ultimi Governi – quello tecnico prima delle larghe intese e quello politico dopo – hanno abusato e lautamente utilizzato il termine «urgente». Monti usò il termine «urgente» per imporre, anticipandola, l'IMU rispetto alla previsione del 2014, ma anche l'introduzione dell'IMU per la prima casa in contraddizione con i provvedimenti precedenti. Letta usa, dal suo canto, la corsia d'urgenza, anch'essa del decreto, per togliere l'IMU e per introdurre e cambiare nome con la service tax. La sostituzione dell'IMU con la service tax è la rappresentazione evidente, più eloquente di un Governo che diventa di fatto inadeguato a dare risposte strategiche e lungimiranti per il nostro Paese e per alcune parti del Paese che sono marginali e che vengono marginalizzate da questo tipo di atteggiamento. 
Un Governo che tappa un buco, facendone, per tapparlo, uno più grande non in grado di dare una risposta compiuta al tema, strategico del Paese, che tutta l'economia mondiale affronta e, cioè, quello del debito pubblico. Noi continuiamo a perseguire la politica del tappabuchi, senza affrontare, invece, la questione centrale del debito pubblico e, anzi, la eludiamo, forse, per ragioni che, come dicevo prima, appartengono più ai poteri forti che a quelli, invece, del buon governo e del governo della cosa pubblica. Un Governo che brancola nel buio: ci sono elementi cardine di questa azione che, apparentemente, viene descritta anche nei contesti internazionali, come di un Governo decisionista; in realtà, se uno affronta e guarda dentro i singoli provvedimenti, si accorgerà che, invece, c’è una totale continuità con chi ha elargito miliardi e miliardi alle banche per tappare i buchi delle banche stesse, senza, invece, occuparsi di tappare quel grande buco del debito pubblico del nostro Paese. 
Un Governo che cambia il nome alle tasse, ma che le conferma e le aumenta come si è visto in queste ultime settimane per quanto riguarda la stessa IVA che avrà un'incidenza, anch'essa, sul sistema economico del Paese, dei consumi e, conseguentemente, delle produzioni assolutamente rilevante. Così com’è evidente che siamo un caso rarissimo nel contesto internazionale; siamo uno Stato che usa il debito per incrementare il debito.
Notoriamente il debito deve essere un investimento del Paese per uscire dalla morsa stessa del debito; nel nostro Paese, invece, siamo riusciti a ingenerare un sistema per cui il debito ha incrementato il debito stesso. In 15 anni, e quindi non contestualizzo, siamo riusciti ad abbattere il debito solo del 17 per cento rispetto al PIL, per intenderci poco più dello 1 per cento all'anno. Nel 2010 abbiamo pagato 70 miliardi di euro di interessi rispetto al debito pubblico, nel 2011 abbiamo pagati 80 miliardi di euro, nel 2012 90 miliardi di euro e nel 2013 abbiamo sfondato il muro dei 90 miliardi di euro di interessi all'anno. Basta solo un dato per capire di cosa, concretamente, stiamo parlando. Stiamo parlando di un rapporto, per esempio, con il Servizio sanitario pubblico. Noi paghiamo ogni anno 130 miliardi di euro di sanità pubblica, di Servizio sanitario nazionale; oppure, il gettito dell'IVA: 102 miliardi di euro di IVA; noi consumiamo il prelievo fiscale dell'IVA totalmente per pagare il debito attraverso il pagamento degli interessi. 
Quindi, una rilevanza che in questo provvedimento dimostra ancora una volta che non vi è la capacità di affrontare la questione quando ci sono riserve come quelle che si sono sentite in questa Aula rispetto al taglio dell'IMU, che può esser una visione ideologica da una parte e dall'altra, ma che concretamente serviva per rimettere nelle tasche dei cittadini italiani denari per incrementare i consumi e conseguentemente dare delle risposte in termini di produzione in un sistema economico che si rimette in marcia. 
In realtà, questo provvedimento d'urgenza che oggi esaminiamo, è un provvedimento che si inquadra nella consuetudine di questi ultimi decenni cioè del finto, consueto e consunto gioco dei conti pubblici delle tre carte. Qua metto, qua tolgo e viceversa. Oggi, il risultato è eloquente, si può guardare con numeri che sono nella loro rilevanza assolutamente drammatici per il nostro Paese. Il risultato è che abbiamo messo più tasse che hanno significato meno consumi, meno consumi hanno significato meno produzione, meno produzione ha significato meno prodotto interno lordo, meno prodotto interno lordo ha significato meno entrate, meno entrate hanno significato più debito, più debito ha fatto, come risultanza, più tasse. È evidente che siamo di fronte a un risultato politico,
strategico, a un percorso di questi mesi; la continuità con il Governo Monti, per quanto mi riguarda, è eloquente, anche nella mia scelta politica, sia allora che oggi di confermare la mia contrarietà a questo tipo di azione priva di strategia, di lungimiranza, di faro che possa tracciare una strada, una via d'uscita per la ripresa economica del nostro Paese. 
Manca in questo provvedimento – considerato che rimandiamo anche una ennesima rata su cui disporre e decidere e su cui la contesa politica ancora si concentrerà – la volontà di affrontare, lo ribadisco, i temi centrali della ripresa economica e si porrà ancora il tema dell'IMU fra qualche settimana, fra qualche mese. Manca cioè l'inversione di tendenza, quella che un Governo di larghe intese avrebbe dovuto proporre al Paese e proporre per svincolarsi da quei condizionamenti e quelle pressioni non soltanto interne che arrivano dai poteri forti e dalle banche, ma anche e soprattutto da quelle internazionali, da quei Paesi che vorrebbero continuare a mantenere il cappello sulle decisioni di questo Parlamento e del nostro Paese.

Serviva un piano straordinario per abbattere il debito pubblico, questo io non mi stancherò in quest'Aula di ribadirlo, di ripeterlo, perché credo che ci siano le condizioni per farlo, ma si tergiversa solo per continuare ad avallare politiche che in qualche modo sono tutte funzionali al sistema bancario, al sistema del credito internazionale, a quel condizionamento che noi continuiamo a subire. Bastano due dati: sono stati censiti tutti gli atti parlamentari di audizioni dell'Agenzia del demanio e si parla di 1.700 miliardi di euro di beni patrimoniali del nostro Stato. 
Ipotizziamo che tutti i 1.700 miliardi di euro non siano spendibili, non siano utilizzabili e non siano vendibili, ma è altrettanto vero che se questo dato, 1.700 miliardi, è comparato con i 2 mila miliardi di euro di debito pubblico è facile pensare che si possa rinvenire nei 1.700 miliardi una quota, per esempio 300-350 miliardi – come dicono esponenti di primo piano dello stato finanziario ed economico che hanno avuto anche grande ruoli, cito per tutti il Ragioniere generale dello Stato, Monorchio, che ha detto che la cifra di 300-350 miliardi sarebbe quella ottimale per riportare il rapporto debito-PIL sotto il 100 per cento – se si ha il coraggio di fare azioni strategiche, come per esempio quella di immettere sul mercato, anche attraverso società quotate in Borsa, con l'apporto non solo di capitali pubblici, ma anche di quelle società correlate – cito per tutti L'ENEL, cito per tutti l'ENI, cito per tutti Finmeccanica –, società che hanno capacità e che costituiscono la polpa del sistema produttivo del nostro Paese e che invece non hanno la capacità di incidere su questo sistema. 
Ebbene, lì si potrebbe intervenire, dicono i tecnici, dicono gli economisti, per abbattere gli interessi da 90 miliardi all'anno tagliandoli di 15-18 miliardi di euro all'anno. Ecco, qui è il tema dell'IMU, perché porre in essere un'azione fondamentale sul piano economico significava tagliare il debito pubblico, significava mettere in condizione non di ottemperare a un disposto da campagna elettorale per cui restituiamo l'IMU; il concetto fondamentale era quello di dire: restituiamo i 4 miliardi dell'IMU, tagliamo i 4 miliardi dell'IMU del 2013 sulla prima casa e consentiamo ai cittadini italiani di far
ripartire, per quanto di loro competenza, la spesa, i consumi, e conseguentemente le produzioni; conseguentemente far partire, però, un piano infrastrutturale del Paese, a partire dalla banda larga, che in qualche modo oggi è il tema nevralgico di un Paese che è in ritardo e che non riesce ad affrontare in termini cogenti i temi dello sviluppo innovativo e moderno del Paese e, aggiungo, di riequilibrio del nostro Paese. 
Ci sono aree del Paese – cito soltanto un dato del riparto dei fondi infrastrutturali del nostro Paese – dove si evince la disparità di trattamento. Non c’è un problema di risorse finanziare, c’è una discriminazione palese nella gestione delle risorse finanziarie, basti soltanto un dato: un cittadino della regione Calabria ha preso in questi ultimi 15 anni, in termini pro capite, 23 mila euro di infrastrutture, un cittadino sardo ne ha presi 3.400. Il tema non è che non ci sono le risorse, il tema è che vengono ripartite e spartite su altri tavoli dove la coesione e l'equilibrio del nostro Paese è assolutamente assente. 
E il Documento economico-finanziario approvato nei scorsi da questo Parlamento ne è la dimostrazione ancora lampante della conferma di una prassi ormai consolidata di gestire i fondi pubblici infrastrutturali e di coesione in maniera assolutamente discriminatoria. 
Di tutto questo, però, di questo piano straordinario, non c’è traccia. Non si pone il problema di chi non lavora. Il tema oggi è il cuneo fiscale, che riguarda chi lavora, ma il tema di chi non lavora o di chi è uscito dal sistema del lavoro non può essere risolto soltanto con il cuneo fiscale. Bisogna far ripartire l'economia, e questo si può fare soltanto con un'azione da piano Marshall che possa davvero mettere in campo, così come hanno sostenuto economisti di grande valore nazionale ed internazionale, la partita fondamentale dell'investimento in questi momenti di contrazione grave e di recessione economica. Quindi, bisogna cambiare la strategia: non tasse, ma investimenti in grado di dare risposte alla ripresa produttiva del nostro Paese. Ma a questo vorrei permettermi di aggiungere una partita tutta costituzionale rispetto a questo decreto, che per quanto riguarda il tema delle regioni a statuto speciale conferma la visione strabica, gravemente illegittima sul piano costituzionale, di questo Governo così come del precedente.
Ciò perché, nel momento in cui si introduce, si taglia una parte dell'IMU ma si introduce la service tax, non si tiene conto di quei dispositivi che la Corte Costituzionale ha messo nero su bianco e che l'Avvocatura dello Stato, difendendosi dal ricorso, per esempio, della regione Sicilia e quello più tardivo della regione Sardegna, che hanno posto in essere un richiamo pregiudiziale in cui la Corte Costituzionale ha detto: «Ne consegue l'inapplicabilità dell'IMU alla regione ricorrente (...) perché non rispettoso dello statuto d'autonomia» e, dice la Corte Costituzionale in maniera puntuale nella decisione n.64 del 7 marzo del 2012, che: «il concorso con le regioni a statuto speciale deve avvenire solo attraverso norme di attuazione»; perché lo Stato chiede le norme di attuazione per dare i soldi alle regioni a statuto speciale e non le chiede quando invece li deve prelevare, li deve in qualche modo sottoporre ad una procedura che è sul piano costituzionale da impugnare immediatamente. 
Io ho chiesto ripetutamente con atti di sindacato ispettivo, con una lettera personale al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio, che si mettesse in conto la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo l'IMU per le regioni a statuto speciale e in particolar modo per quelle regioni dove la coesione, il riequilibrio erano evidentemente traditi, appunto, dall'atteggiamento che richiamavo prima sul fronte strategico della coesione e della mancata discriminazione per il nostro Paese. 
E poi c’è la partita degli ammortizzatori sociali, una partita non pianificata, una partita che sta diventando un onere sociale giorno dopo giorno sempre più rilevante, che è funzionale anch'essa a drogare il sistema perché non si tiene conto, e cito per tutti, il fallimento politico, economico, industriale di questo Governo e del precedente rispetto a partite industriali come quello della Sardegna e del Sulcis in particolar modo. 
L'Alcoa è stata chiusa e non si è riusciti a trovare una partita che consentisse all'ENEL o che obbligasse l'ENEL, con strumenti di persuasione o di obbligo legislativo, a fornire un contratto bilaterale che consentisse per 15 anni di avere energia a basso costo o meglio a costo uguale a quello degli altri Paesi europei. 
Ebbene, noi a fronte di ciò che abbiamo perso con la chiusura di quella fabbrica, sia in termini di prodotto interno
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lordo sia di produzione su una materia prima come quella dell'alluminio nel settore automobilistico, cito soltanto questo per non andare oltre, abbiamo messo invece in campo un'azione di ammortizzatori sociali, cioè abbiamo detto a quei lavoratori: preferiamo dare un sostentamento assistenziale a voi piuttosto che obbligare l'ENEL, guarda caso ENEL, sponsor primario di fondazioni politiche legate al Presidente del Consiglio e a tanti suoi amici, che viene finanziata proprio dall’ ENEL, dall'ENI e da quant'altri. 
Io mi domando: il Presidente del Consiglio deve tutelare l'ENEL e l'ENI o deve intervenire su una partita rilevante come quella occupazionale, come quella necessaria per dare risposte non in termini assistenziali? Perché, poi, il 31 dicembre scadranno i termini anche assistenziali per quei lavoratori del Sulcis costretti alla cassa integrazione. Ebbene, questo provvedimento riporta un ulteriore incremento dei denari necessari per gli ammortizzatori sociali, necessari e indispensabili; ma è indispensabile la doppia corsia, dove si affrontano i temi sociali ma si affronta anche la partita della ripresa economica, della capacità di far ripartire sul piano industriale questo Paese perché l'economia si regge non sull'incremento delle tasse ma sulla capacità di far ripartire la produzione, perché solo attraverso la produzione ci può essere la dignità dell'uomo, del lavoratore e la ripresa di quel rapporto che invece si è interrotto con regioni come la Sardegna, che è stata anche in questo provvedimento tradita da un provvedimento incostituzionale e illegittimo perché viene meno lo statuto autonomo della nostra isola.

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